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Karate e Zen

Il Mokuso e la ricerca della Mente Vuota

Gichin Funakoshi, 1868-1957, fondatore del Karate Shotokan, arti marziali giapponesi
Gichin Funakoshi (1868–1957), padre del Karate moderno e profondo interprete della “via” del perfezionamento interiore

Il Karate-dō, nato a Okinawa e poi sviluppato in Giappone, ha abbracciato fortemente l’influenza dello Zen soprattutto nel XX secolo. Già il suffisso -dō (“via”) indica che il karate moderno non è solo un insieme di tecniche di percussione, ma un percorso di miglioramento personale. Gichin Funakoshi, il fondatore dello stile Shotokan, sottolineava che

“il vero obiettivo del Karate non risiede nella vittoria o nella sconfitta, ma nella perfezione del carattere dei suoi praticanti”

un’affermazione che riecheggia la disciplina interiore propria dello Zen. Nei dojo tradizionali, è consuetudine iniziare e terminare l’allenamento con il mokusō (黙想), termine giapponese che significa “pensiero silenzioso” ovvero una forma di meditazione seduta. In posizione di seiza (inginocchiati), gli allievi chiudono gli occhi e regolano il respiro, svuotando la mente dalle distrazioni quotidiane. Lo scopo è raggiungere un attimo di quiete mentale, un preludio alla concentrazione necessaria per la pratica. Questa breve meditazione cerimoniale affonda le radici negli esercizi per coltivare il mushin tipici dello Zen​. In effetti, nel Karate tradizionale “la meditazione (mokusō) è parte integrante del rito prima e dopo la pratica, e ha origine dall’addestramento al mushin dello Zen”​. Attraverso il respiro controllato e la postura ferma, il karateka impara a “resettare” la mente, liberandola da ansie e pensieri vaganti, per accrescere concentrazione e calma.

L’obiettivo ultimo del mokusō nel karate è proprio quello di coltivare la mente vuota e ricettiva: mushin no shin, lo “spirito di non-mente”. In tale stato privo di distrazioni emotive (paura, rabbia, ego), il praticante può reagire in modo naturale e istintivo a qualsiasi situazione, anche di pericolo​. Come spiegano i maestri, una mente sgombra e silenziosa è capace di percepire ogni dettaglio del momento presente: l’azione sorge spontanea, non filtrata da esitazioni. Un karateka esperto, tramite la meditazione, mira a raggiungere quella spontaneità efficiente in combattimento in cui il corpo “agisce da solo” senza che il pensiero razionale intervenga a rallentarlo. Questo concetto ricorda il famoso paradosso zen del “suono di una mano sola” – l’idea di andare oltre il pensiero logico. Non a caso, il Karate moderno ha voluto legarsi alla filosofia Zen anche per evidenziare che la sua pratica porta a uno stato mentale illuminato e intuitivo, analogo a quello cercato dai monaci in meditazione. Molti dojo espongono massime come “Ken Zen Ichinyo” (“Zen e pugno sono uno”) o recitano i Dojo-kun, precetti etici che includono concetti di autocontrollo e rettitudine tipicamente zen.

Karateka in seiza durante il mokusō, pratica meditativa per raggiungere lo stato di mente vuota (mushin)
Mokusō nel dojo tradizionale Un momento di raccoglimento silenzioso nel dojo: il mokusō prepara la mente del karateka a reagire senza ego né esitazione.
Karateka in meditazione sotto una cascata, ispirato alla pratica ascetica zen del Misogi
Ispirato ai saggi zen, Masutatsu Oyama si ritirò sul monte Minobu per meditare sotto le cascate, rafforzando spirito e determinazione.

 

Dal punto di vista pratico, oltre al mokusō, alcuni maestri di karate integrano esercizi specifici di meditazione e respirazione. Ad esempio, pratiche di visualizzazione (immaginare le tecniche perfette nella mente) o meditazioni sotto cascate e in montagna erano care a figure leggendarie. Masutatsu Oyama, fondatore del Kyokushin Karate, trascorse lunghi periodi in isolamento sulle montagne per allenare corpo e spirito: è noto il suo ritiro sul monte Minobu, durante il quale meditava sotto le cascate e rompeva pietre, forgiando una volontà indomabile. Queste esperienze ricalcano il modello dei saggi zen eremiti.

 

Anche i kata – le forme preordinate del karate – sono talvolta descritti come meditazione in movimento: ripetendo un kata con concentrazione totale, il karateka entra in un flusso meditativo simile a una danza marziale, in cui la distinzione tra pensiero e azione si dissolve. In questo senso, il karate diventa zen dinamico, una disciplina in cui il combattimento immaginario serve a conoscere meglio sé stessi. Storicamente, maestri come Kenwa Mabuni e Gichin Funakoshi furono influenzati dagli ideali del Bushidō impregnato di Zen e incoraggiarono i loro studenti a coltivare spirito e umiltà tanto quanto la tecnica. Oggi, molti dojo tradizionali nel mondo continuano questa tradizione: prima di ogni allenamento si “svuota la tazza” della mente – per citare il famoso detto Zen ripreso da Bruce Lee – affinché lo studente sia ricettivo e presente. In definitiva, il Karate-dō utilizza la meditazione come strumento essenziale per rafforzare la mente, gestire lo stress e avvicinare il praticante a quello stato di quiete vigile che consente di dare il meglio di sé in combattimento come nella vita​.

Karateka esegue un kata in un dojo tradizionale giapponese, immersa nella luce naturale del mattino
Nella concentrazione assoluta del kata, il Karate diventa meditazione in movimento: il gesto si fa spirito, e l’azione nasce dal silenzio interiore.
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