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Storia del judo

Dalle origini delle arti marziali alla nascita e sviluppo del judo

Il Judo ha la natura dell’acqua.
Eccola, turbinante nelle cascate del Niagara,
calma nella superficie di un lago,
minacciosa in un torrente
o dissetante in una fresca sorgente scoperta un giorno d’estate.
Questo è il principio del Judo

Gunji Koizumi, Shi-han (1886-1964) (8° Dan)

Introduzione

La storia del judo è una saga affascinante che intreccia le antiche radici delle arti marziali con l’evoluzione moderna di una disciplina globale. Nato dalle tradizioni millenarie del jujutsu giapponese e raffinato dalla visione di Jigoro Kano, il judo è diventato molto più di un semplice sport. È una filosofia di vita che unisce corpo e mente, armonizzando l’arte del combattimento con lo sviluppo personale. Questo articolo esplora il viaggio del judo dalle sue origini antiche fino alla sua diffusione in Italia e nel mondo, mettendo in luce le figure chiave, gli eventi storici e l’impatto culturale di questa straordinaria disciplina.

Origini delle arti marziali in Giappone

Bodhidharma
Statua di Bodhidharma (India, 483 circa - Tempio di Shaolin-si ?, 540)

L’origine delle arti marziali si perde nella notte dei tempi ma il loro sensazionale sviluppo in Asia si ebbe grazie alla fusione dei principi del buddhismo indiano e del taoismo cinese. La tradizione ci rimanda a Bodhidharma (Ta-Mo in cinese, Daruma in giapponese), monaco indiano. Nel 527 d.C. andò in Cina per diffondere il buddhismo. Soggiornò molti anni nel tempio di Shaolin (Shorinji in giapponese), il cui nome significava “giovane foresta”, ai piedi dei monti Sung-Shan, nella provincia dello Henan. Qui fondò una scuola impostata sulla meditazione: Dhyana in sanscrito, Chan in cinese, Zen in giapponese. Viste le non buone condizioni fisiche dei monaci, insegnò loro degli esercizi di respirazione e di ginnastica e, secondo la leggenda, anche delle tecniche di combattimento a mani nude, che col tempo furono arricchite e perfezionate sotto la generica denominazione di wushu, ossia “arti marziali” (bujutsu in giapponese).

I tantissimi stili di wushu si sono sviluppati lungo due direttrici. La prima prende il nome di Wei-Chia e comprende gli stili “esteriori” o “duri” di lotta, che si fondano sull’uso della forza in linea retta.
La seconda direttrice è la Nei-Cha e comprende gli stili “interiori” o “morbidi”, che si sviluppano con il concetto di Wu-Wei, solitamente tradotto con “non azione”, ma sarebbe meglio dire “non ingerenza”: rappresenta la capacità di dominare le circostanze senza opporvisi, arrivando a sconfiggere un avversario cedendo apparentemente al suo assalto per neutralizzarlo con movimenti circolari e rivolgere contro di lui la sua stessa forza.

Gli stili duri facevano capo al tempio buddhista di Shaolin. A Okinawa generarono il karate, che fu poi diffuso in Giappone da Gichin Funakoshi (1868–1957).

Gli stili morbidi, che facevano capo al tempio taoista di Wutang, in Giappone generarono il jujutsu, da cui sono derivati il judo di Jigoro Kano (1860-1938) e l’aikido di Morihei Ueshiba (1883-1969).

Tempio Shaolin
Il tempio di Shaolin venne fondato nel 495 d.C. ai piedi del lato occidentale della montagna Songshan Mountain, 13 chilometri a nordovest della città di Dengfeng, nella provincia dello Henan. Il decimo imperatore Xiaowen della dinastia dei Wei del nord (386-557) fece costruire il tempio per sistemare il monaco e Maestro Indiano Batuo (Buddhabhadra). Tempio Shaolin significa letteralmente "Tempio nella folta foresta della Montagna Shaoshi".

La lotta giapponese nel periodo feudale

Il Nihon Shoki o Nihonji (cronaca del Giappone, compilata nel 720 d.C.) riferisce che già nel 230 a.C. ebbero luogo pubbliche competizioni di forza, che servivano anche a selezionare gli uomini più vigorosi, destinati alla guardia imperiale o alla formazione di corpi speciali.

Il più famoso incontro di lotta che si ricordi fu quello combattuto davanti all’Imperatore Sunin (29 a.C.-70 d.C.) da Taima-no-Kuyehaya e Nomi-no-Sukune, che uccise l’avversario spezzandogli la schiena. Il vincitore ricevette onori e ricchezze, nonché l’incarico di regolamentare il suo efficacissimo metodo di lotta per renderlo meno pericoloso.
Nomi-no-Sukune selezionò allora 48 colpi (12 riguardavano la testa, 12 il tronco, 12 le mani e 12 le gambe) e chiamò Sumo il nuovo stile.
Da una forma di combattimento primitivo e cruento (chikara-kurabe), il sumo progredì verso una forma di addestramento militare, fino a divenire un vero e proprio rito durante le raffinate epoche Nara ed Heian, imbevute di cultura cinese: l’Imperatore Shomu (724-740), infatti, lo incluse tra i giochi della Festa di Ringraziamento per il raccolto.

Sumo
Un xilografia nishiki-e raffigurante un incontro di sumo

L’importanza del sumo fu veramente grande, visto che nell’858 Korehito e Koretaka, figli dell’Imperatore Montuko, arrivarono a disputarsi il trono con un incontro di lotta tra i loro campioni Yoshiro e Natora. Vinse Yoshiro e Korehito divenne l’imperatore Seiwa.
I primi lottatori professionisti si esibirono a Edo nel 1623. Nonostante qualche dimostrazione all’estero, il sumo ha sempre avuto un carattere esclusivamente nazionale e ancora oggi gli incontri si svolgono secondo l’antico cerimoniale, compreso il propiziatorio lancio di sale sulla pedana.

Dal Giappone si è invece diffuso in tutto il mondo il jujutsu, o “arte della flessibilità” le cui origini si perdono nelle leggende. La più nota racconta che intorno alla metà del ‘500 un medico di Nagasaki, Shirobei Akiyama, si recò in Cina per approfondire le sue cognizioni sui metodi di rianimazione, che presupponevano una perfetta conoscenza dei punti vitali del corpo umano. Akiyama, uomo di moltiforme ingegno, approfittò del soggiorno nel continente per studiare anche il taoismo e le arti marziali cinesi. Tornato in patria, durante un periodo di meditazione notò che i rami più robusti degli alberi si spezzavano sotto il peso della neve. Al contrario, quelli di un salice si piegavano flessuosi fino a scrollarsi del peso, per riprendere poi la posizione senza aver subito danni. Applicando alle tecniche di lotta apprese in Cina le considerazioni maturate sulla cedevolezza o “non resistenza”, fondò la scuola Yoshin-ryū (柳心流) conosciuta anche come “scuola del cuore di salice”.

Non è questa la sede per trattare del taoismo, ma va evidenziato che alla sua base stanno i due principi complementari Yin e Yang, l’aspetto positivo e negativo dell’Universo: nessuno dei due può esistere senza l’altro. Nel mondo tutto è in perpetua mutazione tra questi due poli attraverso combinazioni dinamiche. Lo yang rappresenta la durezza e l’attacco, lo yin la morbidezza e la difesa.
Dal Tao-Te-Ching, il testo cinese attribuito a Laozi, mi preme citare alcune massime di grande importanza per il nostro studio:

Le molte scuole di jujutsu, pur con diverse sfumature, fecero proprio questo fondamentale concetto, che rivoluzionò la maniera di lottare, dimostrando che la morbidezza può vincere la forza. Va inoltre sottolineato che “ai livelli più alti delle arti marziali, il punto più importante di tutte queste strategie sta nello sviluppare una sensibilità intuitiva verso le leggi dell’universo. Lo scopo più profondo non è semplicemente sconfiggere gli avversari ma giungere al “modo” (“Do” o “Tao”), che è il modo in cui funziona l’universo (Payne)”.

Simbolo Yin-Yang tradizionale cinese
Yin-Yang, il tradizionale simbolo cinese che rappresenta il concetto di dualismo e l'equilibrio tra forze opposte.

La restaurazione Meiji e le Arti Marziali

Tokugawa Ieyasu fondatore dello shogunato Tokugawa
Tokugawa Ieyasu fondatore dello shogunato Tokugawa

Il jujutsu si sviluppò sotto nomi diversi a seconda del gruppo di tecniche che si preferiva approfondire (proiezioni, immobilizzazioni, percussioni, ecc.), raggiungendo il massimo splendore durante il lungo periodo di pace instaurato da Ieyasu Tokugawa (1543-1616) dopo la battaglia di Segikahara (1603) e la conquista del castello di Osaka (1615).
La fine delle guerre civili che avevano insanguinato il Giappone dal XII secolo, interrotte soltanto per respingere le invasioni mongole di Kublai Khan, lasciò disoccupati migliaia di Samurai, che divennero perciò Ronin (“uomini onda”, ossia guerrieri senza padrone).
Molti di loro pensarono quindi di mettere a frutto quanto avevano appreso sui campi di battaglia, raccogliendo e perfezionando le tecniche di combattimento senz’armi ereditate dal passato. Prima di allora, esistevano solo scuole private a uso dei grandi clan, ciascuno dei quali elaborava e tramandava al suo interno colpi di particolare efficacia. Sorsero quindi scuole di bujutsu (arti marziali) aperte a tutti.

L’uso strategico del corpo umano raggiunse livelli sbalorditivi di efficienza. Due secoli e mezzo di pace durante lo shogunato Tokugawa furono possibili grazie a un rigoroso controllo verticistico che tendeva al mantenimento dell’ordine. Divennero difficoltosi i contatti all’interno e furono decisamente vietati quelli con l’esterno, pena la morte, relegando il paese fuori dalla storia. Intorno alla metà del XIX secolo, però alla ricerca di nuovi mercati commerciali, le grandi potenze decisero di porre fine all’isolamento nipponico.

L’8 luglio 1853 il commodoro statunitense Matthew Calbraith Perry giunse nella baia di Uraga con le sue celebri quattro “navi nere”, chiedendo a nome del Presidente Fillmore l’apertura del Giappone al mondo occidentale. In seguito ai temporeggiamenti nipponici, Perry tornò nel febbraio 1854 con otto navi, facendo chiaramente intendere che non avrebbe tollerato il rifiuto. Al trattato di Kanagawa con gli USA seguirono ben presto quelli con la Gran Bretagna e Russia. Questo gettò nello sconforto quanti avrebbero preferito morire combattendo contro un nemico meglio armato che sottostare a un umiliante cedimento.
I contrasti tra “falchi” e “colombe” si acuirono via via fino a spaccare il paese. Ne conseguì inevitabilmente una sanguinosa reazione a catena, culminata nel 1868 con la fine del Bakafu (shogunato) Tokugawa e con la “restaurazione Meiji”. Dopo sette secoli, il potere politico tornava dalle mani dello a quelle dell’Imperatore.

Commodoro Matthew Calbraith Perry in uniforme militare
Commodoro Matthew Calbraith Perry (1794-1858), l'ufficiale della Marina degli Stati Uniti noto per aver aperto il Giappone al mondo occidentale con il Trattato di Kanagawa del 1854.

Il giovane Mutsuhito Meiji, 122° esponente della dinastia, trasferì la capitale da Kyoto (ove risiedeva dal 794) a Edo, che chiamò Tokyo, ossia “capitale dell’est”, inaugurando l’era Meiji, di “governo illuminato”.
Nei primi anni dell’era Meiji (1868-1921), sotto l’infatuazione per la civiltà e i costumi occidentali, il bujutsu subì una rapida decadenza, anche a causa dell’enorme diffusione delle armi da fuoco. Non pochi esperti, rimasti senza allievi, per sopravvivere in una società profondamente mutata dovettero esibirsi a pagamento in squallidi locali o finirono nella malavita. I Maestri non tramandavano più il loro sapere, portandosi nella tomba i segreti del Ryu (scuola): un grande patrimonio di nobili tradizioni stava per scomparire.

Nascita di Jigoro Kano e sviluppo del judo

Jigoro Kano in judogi
Jigoro Kano (1860-1938)

Questo era il triste spettacolo che apparve a Jigoro Kano.
Nato nel 1860 a Mikage presso Kobe, nel 1871 si trasferì a Tokyo con la famiglia. D’intelligenza vivissima ma di gracile costituzione, doveva subire la prepotenza dei compagni, dai quali avrebbe voluto difendersi praticando il jujutsu.
Poiché la disciplina era screditata e ritenuta troppo violenta, Kano dovette rinunciarvi, dedicandosi specialmente alla ginnastica e al baseball per irrobustire il suo fisico. Nel 1877, entrato all’università di Tokyo, poté finalmente avvicinarsi al jujutsu. Si applicò con passione, impegnandosi in duri allenamenti. Sempre ricoperto di piaghe, era soprannominato “unguento”. I suoi primi Maestri furono Hachinosuke Fukuda e Masatomo Iso, della Tenshin-Shin’yo-ryu, dai quali apprese in particolare il katame-waza e l’atemi-waza, venendo in possesso dei Densho (i libri segreti) della scuola dopo la morte.

Conobbe quindi Tsunetoshi Iikubo, esperto della Kito-ryu, da cui apprese il nage-waza. Mentre progrediva con sorprendente facilità, penetrando i segreti dei diversi stili, nel 1881 ottenne la laurea in lettere e cominciò a insegnare al Gakushuin (Scuola dei Nobili).

Nel 1882 Jigoro Kano aprì una palestra di appena 12 tatami nel tempio di Eishoji, un tempio buddhista a Ueno. Kano iniziò a insegnare a un gruppo di 9 studenti: Tomita Tsunejiro, Shiro Saigo, Tsuneemon Yokoyama, Yoshitsugu Yamashita, Sakujiro Yokoyama, Shikataro Honda, Saburo Higuchi, Kunisaburo Iizuka e Kichinosuke Saigo. Questi studenti furono i primi a imparare una sintesi di varie scuole di jujutsu elaborata dal giovane professore. Nasceva così il Kodokan, “luogo per studiare la Via”. Gettava le basi per quello che sarebbe diventato uno dei più famosi dojo di arti marziali al mondo.

Il nuovo stile di lotta, non più soltanto un’arte di combattimento, ma destinato alla divulgazione quale forma educativa del corpo e dello spirito, venne chiamato judo “Via della flessibilità”). Come precisò Kano nel 1922, si fondava sul miglior uso dell’energia (Sei Ryoku Zen Yo) allo scopo di perfezionare se stessi e contribuire alla prosperità del mondo intero (Ji Ta Kyo Ei).

Ingresso del Tempio di Eisho, luogo di nascita del Judo Kodokan, tempio in Giappone
L'ingresso del Tempio di Eisho, il luogo storico dove è nato il Judo Kodokan in Giappone.

Secondo Alan W. Watts:

“Il jujutsu è specificatamente la tecnica di un particolare modo di lotta,
il judo è piuttosto la filosofia su cui questa tecnica si fonda”.

Nel 1885, Jigoro Kano formulò per la prima volta il Go-kyo (“cinque principi”) o metodo d’insegnamento del judo che classifica le tecniche di proiezione in cinque gruppi o princìpi. Kano selezionò 40 tecniche dal jujutsu, e le organizzò in base alla difficoltà e alla sicurezza. Kano e i suoi allievi migliori apportarono alcune modifiche al Go-kyo fino a raggiungere la versione definitiva nel 1922, che è ancora oggi utilizzata. Il Go-kyo è diviso in cinque gruppi di otto tecniche ciascuno. Questi gruppi vanno dal primo al quinto gruppo in ordine crescente di complessità. Ogni gruppo ha un nome che inizia con “dai” (che significa “grande”) e termina con “kyo” (che significa “principio”). Il Go-kyo è considerato la base delle conoscenze judoistiche e viene insegnato ai principianti per farli progredire nei gradi inferiori alla cintura nera.

Nel 1886, il Kodokan ha dimostrato la sua superiorità sulle altre scuole di jujutsu in un famoso torneo, in cui ha sconfitto la scuola di Hikosuke Totsuka con 13 vittorie e 2 pareggi su 15 incontri. In breve il Kodokan, con un occhio alla tradizione e l’altro al futuro assurse a grande fama. Nel 1906 riunì a Kyoto i rappresentanti delle varie scuole per delineare i primi kata (“modelli” delle tecniche di lotta); nel 1922 diede vita alla Società Culturale del Kodokan.

Il Kodokan, fin dal 1883, subì numerosi trasferimenti, ampliandosi in continuazione. La sede inaugurata il 25 marzo 1958 contava 1000 tatami e oggi ne conta quasi 1300.

Diffusione del judo in occidente

Ma lontano dal Giappone, nonostante i viaggi e le dimostrazioni di Jigoro Kano, il fondatore del judo, si diffuse soprattutto il jujutsu, che aveva tratto nuovi stimoli dalla rivalità con il Kodokan.
 
I Maestri di jujutsu, infatti, costretti a subire la crescente popolarità del judo in patria, trovarono un fertile terreno d’insegnamento all’estero.
Nel 1901, i maestri giapponesi Raku Uyenishi e Yukio Tani si trasferirono a Londra e insegnarono i rudimenti del jujutsu al campione svizzero di lotta libera Armand Cherpillod.
Cherpillod scrisse il primo manuale in lingua francese sul jujutsu, che fu tradotto in italiano nel 1906.
Yoshitsugu Yamashita
Yoshitsugu Yamashita (1865-1935)

Nel 1905 Uyenishi aprì una palestra a Londra e Cherpillod diede lezioni a ufficiali di marina durante un corso a Portsmouth. Risale comunque al 1918 l’avvenimento più importante: la costituzione del Budokwai per opera di Gunji Koizumi. Iniziò come società per insegnare jujutsu, kendo e altre arti marziali giapponesi. Nel 1920, il Budokwai ricevette la visita di Jigoro Kano, che portò con sé due esperti di judo: Hikoichi Aida e Kyuzo Mifune. Kano dimostrò le tecniche e i princìpi del judo e convinse molti membri del Budokwai ad adottare il suo stile. Da allora, il Budokwai divenne il primo club di judo in Europa e contribuì alla diffusione del judo in tutto il continente.

A Parigi, dopo una lunga campagna di stampa, il 26 ottobre 1905 s’incontrarono in un combattimento divenuto famoso il Professor Ré-Nié (Gui de Montgailhard) e il Maestro Georges Dubois, valente pugile, schermitore e pesista. Ré-Nié, esperto di jujutsu, ebbe la meglio sul più pesante rivale in appena 26 secondi con una leva articolare. Sul finire del 1905 giunsero a Parigi Tani e Katsukuma Higashi, provenienti dagli Stati Uniti, dove avevano scritto con Hancock un libro sul “metodo Kano”. In dicembre i due disputarono un interessante incontro all’ippodromo Bostok.
Nel 1906, a Berlino, Erich Rahn apriva la prima palestra di jujutsu in Germania, venendo ben presto incaricato d’impartire lezioni alla Polizia berlinese e all’Istituto Sportivo Militare.
Grazie anche ai numerosi libri di Irving Hancock, fin dai primi anni del secolo gli USA si appassionarono al jujutsu (nel 1905 veniva insegnato all’Accademia Navale di Annapolis). Hancock stesso, allievo del Maestro Inouye, lo praticò con discreti risultati.

Per diffondere il “metodo Kano”, il grande Yoshitsugu Yamashita (nel 1935 ottenne il 10° Dan) soggiornò in America dal 1902 al 1907. Ebbe tra i suoi allievi il Presidente Theodore Roosevelt, che ottenne la cintura marrone dopo tre anni di proficue lezioni impartitegli alla Casa Bianca. Una prova dell’interesse statunitense per il jujutsu è la sua inclusione nel programma delle Olimpiadi da disputarsi a Chicago nel 1904 (poi assegnate a Saint Louis).

Il judo in Italia

Anche in Italia, dove imperava la lotta greco-romana con i suoi “ercoli” statici e muscolosi, non mancò qualche sporadica dimostrazione. Tra il dicembre 1905 ed il marzo 1906 si disputò il Trofeo Florio di lotta, articolato in tre prove, che ebbero luogo a Palermo, Napoli e Roma. In tutte e tre le città il pubblico poté assistere anche a sfide di jujutsu tra lo statunitense Witzler e alcuni partecipanti al Trofeo. A Roma le gare si svolsero al teatro Adriano e video il successo di Raoul Le Boucher su Paul Pons. Lo statunitense Witzler rinnovò la sua sfida. Sconfisse prima il tedesco Schakmann e poi il senegalese Amalhou, ma si arrese al fortissimo Raoul. Stesso copione nell’aprile 1906 al teatro Verdi di Firenze. Sempre nell’aprile 1906 tre Maestri giapponesi di passaggio a Roma si esibirono al Club Atletico Romano e uno di loro, Ysmano, si trattenne per qualche tempo nella capitale, impartendo lezioni ai soci del club.
I numerosi contatti tra i marinai italiani e quelli nipponici, consolidati al tempo della rivolta dei Boxer (1900), favorirono la diffusione delle tecniche di jujutsu anche tra i nostri soldati. Questi erano incuriositi e affascinati dal modo particolare di combattere all’arma bianca o a mani nude. I guerrieri del Mikado, presi singolarmente, erano senza dubbio i migliori mai visti. L’esaltante vittoria giapponese sulla Russia (1904-1905) accrebbe l’ammirazione per quel popolo: uscito da un interminabile medioevo feudale solo nella seconda metà dell’Ottocento, in pochi lustri aveva saputo conquistarsi un posto di primo piano tra le grandi potenze. E nel mondo si cominciò a parlare degli invincibili samurai e del loro codice d’onore, il Bushido (“Via del Guerriero”) che Inazo Nitobe descrisse con efficacia in un libro (Bushidô – L’anima del Giappone) divenuto ben presto famoso e tradotto per la prima volta in italiano nel 1917.

Domata la rivolta dei Boxer, l’Italia ottenne una concessione a Tientsin, allargando così i propri interessi in Estremo Oriente. Gli entusiastici commenti di civili e militari sulle virtù della lotta giapponese, soprattutto in vista di un suo impiego bellico, convinsero il Ministro della Marina Carlo Mirabello ad organizzare un corso sperimentale sull’incrociatore Marco Polo. Assegnato al capitano di vascello Carlo Maria Novellis il comando della nave, che stazionava nelle acque della Cina, lo incaricò di assumere a bordo un istruttore di jujutsu. Così firmò l’atto di nascita della lotta giapponese in Italia.
Dopo molte ricerche, Novellis trovò a Shanghai un insegnante che godeva la fiducia del console giapponese. Il 24 luglio 1906, venne stipulato un contratto di quattro mesi, tempo che il maestro giudicava “necessario e sufficiente per portare gli allievi ad un grado di capacità tale da renderli abili ad insegnare a loro volta”. Il corso si sarebbe svolto a bordo e al termine gli allievi migliori avrebbero sostenuto gli esami al Kodokan. In ottobre, infatti, i nostri baldi marinai si sottoposero agli esami, ma il risultato fu decisamente negativo. La colpa era del maestro, commentarono al Kodokan:

Pur essendo abbastanza abile, non poteva insegnare ai suoi allievi più di quanto sapesse.
Cioè non molto, e quindi non aveva mentito assicurando
che in quattro mesi avrebbe portato gli allievi alla sua altezza.

Si risolse dunque con una beffa la prima esperienza del judo italiano.
Per evitare altre spiacevoli sorprese, il povero Novellis pensò allora di richiedere un insegnante proprio al Kodokan, ma Mirabello non diede mai il suo assenso. Il 31 dicembre 1906, giunse a Shanghai l’incrociatore Vesuvio. Novellis cedette il comando delle operazioni Estremo Oriente al capitano di vascello Eugenio Bollati di Saint Pierre. Questi fece imbarcare dal Marco Polo due marinai ormai abili nella lotta giapponese. Uno di loro, il timoniere brindisino Luigi Moscardelli, nell’aprile 1907 ottenne a Tokyo “il diploma di abilitazione all’insegnamento”. In settembre a bordo del Vesuvio si disputarono le gare semestrali imposte dal Ministro della Marina per mantenere in allenamento gli equipaggi: la gara di jujutsu fu vinta dal sottocapo cannoniere Raffaele Piazzolla di Trani sul cannoniere scelto Carlo Oletti, diciannovenne torinese destinato a lasciare un segno profondo nella storia della disciplina in Italia.

Le lezioni di jujutsu sulla Vesuvio furono dunque impartite da un nostro marinaio, magari capace, che però aveva soltanto pochi mesi di esperienza, per di più fatta con un mediocre insegnante giapponese. Attingendo solo saltuariamente alle fonti dell’arte gentile, finimmo per confondere il judo con il jujutsu, praticando una disciplina “autarchica” ben diversa da quella del Kodokan. Tradendone completamente lo spirito, nel nostro paese il jujutsu/judo fu praticato usando molto di più la forza della cedevolezza (ju), trascurando completamente la ricerca della “Via” (do). A riprova della confusione che regnava intorno alla disciplina, basti pensare che nel 1926 il termine judo veniva ancora tradotto “rompi muscoli”! Persino dal già citato Oletti, che si vantava di averne appreso “tutti i segreti” e di essere perciò “padrone di tale metodo”.

Carlo Oletti il padre del judo italiano
Carlo Oletti (1886-1964), considerato il padre del judo italiano

La prima dimostrazione di jujutsu fatta da italiani si svolse a Roma il 30 maggio 1908 durante le feste organizzate dalla Società Nazionale per il Movimento dei Forestieri e dall’Istituto Nazionale per l’Incremento dell’Educazione Fisica. Nell’incantevole scenario di Villa Corsini, alle pendici del Gianicolo, “due abilissimi sottufficiali di marina diedero una dimostrazione della teoria e della pratica della lotta giapponese”. Pochi giorni dopo, evidentemente incuriosito, Vittorio Emanuele III volle che l’esibizione fosse ripetuta nei giardini del Quirinale. Così “Il Messaggero” commentava l’avvenimento:

La dimostrazione fu fatta, con molta chiarezza, dal maestro di scherma De Cugni Francesco, il quale dimostrò, con competenza non comune, l’importanza di questo sport, nuovo per l’Italia./
I due lottatori presentati erano i sottufficiali Vegliante Emanuele e Guzzardi Giuseppe./
Il Re, che si interessò moltissimo dell’esperimento, pregò di ripetere vari colpi e fece scattare molte volte la sua macchina fotografica ritraendoli in più pose./
Da ultimo ebbe per i bravi lottatori parole di vivo compiacimento./
Assistevano pure il Ministro della Marina, On. Mirabello, l’Ammiraglio Viale e il Comandante Como, intelligente ed appassionato cultore dello sport, al quale si deve se tale genere di lotta sta per essere introdotta in Italia./

Il giorno seguente la dimostrazione fu ripetuta nella palestra della Scuola Magistrale in via Cernaia. A conclusione delle feste di maggio, il Comandante Como di Santo Stefano, già capitano di corvetta sul Marco Polo, tenne al Circolo Militare un’applaudita conferenza sull’educazione fisica.
Nel giugno 1909, durante la seconda festa sportiva organizzata a Roma dall’Istituto Nazionale di Educazione Fisica, all’Arena Nazionale si svolse una nuova dimostrazione di jujutsu. Presentati dal 2° capo torpediniere Vegliante, si esibirono il capo timoniere Giuseppe Guzzardi e il capo cannoniere Romolo Scarinei (Vegliante e Guzzardi erano gli stessi del 1908 a Villa Corsini). La manifestazione questa volta ebbe però minore risonanza.
Nonostante l’ottimo esordio, il cammino del jujutsu fu lento e difficile. Infatti, se si eccettua qualche articolo o conferenza, una timida proposta dell’Istituto Nazionale per l’Incremento dell’Educazione Fisica e i generosi ma vani tentativi del lottatore bresciano Cristini, della “Via della flessibilità” non si parlò davvero molto in Italia.

Pugilato e lotta libera per la difesa personale
Pugilato e lotta libera per la difesa personale. Il primo libro edito in Italia a parlare di jujutsu

Risale al 1911 il primo libro italiano che si occupò, per quanto sommariamente, di jujutsu: “Pugilato e Lotta libera per la difesa personale”, edito da Ulrico Hoepli. Ma l’autore, il giornalista sportivo Alberto Cougnet, si limitava a riportare ampi brani della già citata opera di Cherpillod. Appena un anno dopo, Cougnet volle tornare sull’argomento. Dedicò ampio spazio alla “lotta giapponese” nel suo libro “Le Lotte libere moderne”, ancora nelle edizioni Hoepli. Apprendiamo così che la prima troupe di lottatori nipponici venuta in occidente nel 1907 era guidata dal grande Hitachiyama ed ebbe l’onore di esibirsi alla Casa Bianca davanti al Presidente Roosevelt (che fu, come detto, allievo del Maestro di judo Yamashita). Un’altra troupe si esibì a Londra nell’estate 1910.
Al Campionato Mondiale di lotta per professionisti, svoltosi a Parigi nel 1908, aveva preso parte anche il giapponese Akitaro Ono, esperto di jujutsu. Fu battuto in greco-romana dal nostro Giovanni Raicevich sia nella capitale francese che al Torneo delle Nazioni disputato al teatro Eden di Milano dal 16 gennaio al 15 febbraio 1911. Quale “contorno” al torneo, Ono sostenne svariati combattimenti di jujutsu, promettendo 200 lire di premio a chi avesse saputo resistergli per due minuti. È ovvio che vinse sempre e con estrema facilità. Ma tra i suoi avversari, il già citato Umberto Cristini dimostrò “inconfutabilmente di essere uno specialista finissimo dell’arte nipponica della difesa personale”, tanto che pochi giorni dopo il loro incontro, Ono e Cristini furono invitati a una nuova esibizione.

Dal 1° marzo 1911, i milanesi poterono assistere per alcuni giorni agli incontri di sumo, gominuki e jujutsu disputati al Trianon da 24 atleti nipponici. Questi vennero anche al teatro Apollo di Roma dall’11 al 20 marzo.
Commentava Cougnet:

Sono esibizioni d’una straordinaria suggestività e che dimostrano una tecnica ed un’abilità molto superiore a quella della greco-romana cristallizzatasi, da due millenni, in formule combattive ed estetiche, ma di poca o nulla praticità come difesa personale.

A Milano il solito Umberto Cristini resistè ben otto minuti all’esperto Atagawa. Vanno ricordate anche le sfide milanesi con i lottatori professionisti Ambrogio Andreoli (al Teatro Lirico) e Giovanni Raicevich (al Trianon) nel tentativo di dimostrare la superiorità del jujutsu sulla lotta greco-romana. Poi, complice anche la guerra, per molti anni sulla lotta giapponese calò il silenzio. E un totale disinteresse mostrò la Federazione Atletica Italiana, che allora si occupava di lotta greco-romana, pugilato e sollevamento pesi, ma non voleva sentir parlare di lotta libera, soprattutto di “catch” o jujutsu.
Il lavoro compiuto non fu comunque inutile: secondo il Maestro Betti Berutto, infatti i marinai che avevano appreso il jujutsu in Estremo Oriente vennero utilizzati per addestrare i “Caimani del Piave” durante la Grande Guerra. Il conflitto mondiale fece comprendere non solo la necessità di diffondere l’educazione fisica nell’esercito, ma anche l’utilità di disporre di reparti speciali, esperti nel combattimento corpo a corpo.

Umberto Cristini
Umberto Cristini pioniere del judo in Italia

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Il Judo nel dopoguerra

Nel primo dopoguerra due eventi avvicinarono Italia e Giappone, rinverdendo vecchi legami di amicizia: il raid aereo Roma-Tokyo, pensato da Gabriele D’Annunzio ma realizzato dal Tenente Arturo Ferrarin tra il febbraio e il maggio 1920, e la visita a Roma del Principe ereditario Hiroito nel luglio 1921. Gli avvenimenti, largamente reclamizzati dalla stampa, ridestarono l’interesse della gente per l’impero del Sol Levante, per i suoi costumi e per le sue efficacissime tecniche di combattimento.

Sul finire del 1921, il capo cannoniere di prima classe Carlo Oletti (già imbarcato sull’incrociatore Vesuvio) fu chiamato a dirigere i corsi di jujutsu introdotti alla Scuola Centrale Militare di Educazione Fisica a Roma. La scuola era comandata dal colonnello Giulio Cravero. La scuola, istituita con R.D. 20 aprile 1920, ebbe sede nei locali del Tiro a Segno Nazionale, alla Farnesina di Roma, segnalandosi subito all’attenzione generale.
Da quel momento le iniziative si susseguirono numerose. Nel 1922, Oletti insegnò nella palestra della “Giovane Italia” in via della Consulta. Dal gennaio 1923, cominciò le lezioni alla “Cristoforo Colombo” in via Tacito, che divenne ben presto la società sportiva più forte d’Italia nel jujutsu. Vista la diffusione della disciplina, domenica 30 marzo 1924 i delegati di 28 società o gruppi sportivi civili e militari si riunirono nella palestra della “Colombo” per costituire la Federazione Jiu-Jitsuista Italiana. La federazione fu presieduta dal Comm. Antonello Caprino, avvocato e alto funzionario comunale. Il primo articolo del regolamento tecnico federale riconosceva “quale metodo ufficiale di jiu-jitsu, sia per l’insegnamento che per la pratica, il metodo Kano”.
Il 20 e 21 giugno 1924, alla sala Flores in via Pompeo Magno, si disputò quindi il primo Campionato Italiano. Il titolo assoluto fu vinto da Pierino Zerella, esperto di lotta greco-romana, mentre il titolo a squadre andò alla Legione Allievi Carabinieri di Roma, davanti alla SCMEF e alla Guardia di Finanza.
La completa riuscita di tali gare – commentava la stampa – ha confermato l’interesse del pubblico per questo genere di sport, che è mezzo efficace di cultura fisica e di educazione di carattere, mentre insegna pratiche originali di difesa personale e procedimenti strani tuttora incomprensibili di mezzi per richiamare alla vita , con evidente riferimento al kuatsu.

Federazione Italiana Lotta Giapponese FILG
Il logo della Federazione Italiana Lotta Giapponese (FILG)

Nonostante gli sforzi di pochi appassionati, il jujutsu si faceva largo assai lentamente tra il grande pubblico. Tra l’altro, dopo le edizioni del 1924, 1925 e 1926, i campionati italiani furono interrotti. E a nulla era servita, nel 1927, la trasformazione della FJJI in Federazione Italiana Lotta Giapponese sotto la guida del dinamico Giacinto Pugliesi, presidente della “Colombo”. Ritenendo che la disciplina potesse fare un salto di qualità con una spettacolare manifestazione, il 7 luglio 1928, il quotidiano “L’Impero” organizzò con l’A.S. Trastevere una grande riunione di propaganda nella sala della Corporazione della Stampa in viale del Re a Trastevere. La manifestazione ebbe un buon successo grazie a due presenze non previste: la partecipazione dell’esperto judoka nipponico Mata-Katsu Mori, che si trovava a Roma in veste di pedagogo presso la famiglia del poeta Shimoi, e soprattutto l’intervento del Maestro Jigoro Kano. Questi, venuto a conoscenza dell’iniziativa mentre era a Parigi, non volle mancare all’appuntamento. Fortunatamente, “L’Impero” comprese il valore di quella presenza eccezionale e mandò senza indugio un suo cronista all’Hotel Royal in via XX Settembre per ricevere Jigoro Kano.


È bene ricordare che Kano fu un personaggio di rilievo non solo nello sport giapponese. Fin dal 1909, rappresentava il Giappone nel CIO e nel 1911 fondò la Japan Amateur Athletic Association (il Comitato Olimpico Giapponese), di cui fu il primo presidente. Rettore del Collegio dei Pari, Direttore della Scuola Normale Superiore, addetto alla Casa Imperiale, Segretario del Ministero dell’Educazione Nazionale, Direttore dell’Educazione Primaria, Senatore, ecc…, nel 1922 diede vita alla Società Culturale del Kodokan, non riservando però le sue attenzioni solo al judo: aiutò il Maestro Gichin Funakoshi di Okinawa a diffondere il karate-do (“Via della mano vuota”) e s’interessò dell’aikido (“Via dell’armonia con l’energia universale”), la disciplina elaborata dal Maestro Morihei Ueshiba.

Servendosi dell’illustre poeta Harukichi Shimoi quale interprete, nel luglio 1928 Jigoro Kano rilasciò a “L’Impero” un’intervista preziosa. Ritengo quindi utile trascriverne un brano significativo:

Il judo è l’arte di utilizzare col massimo rendimento la forza umana: utilizzare la forza umana vuol dire farle assumere diverse forme e farle raggiungere diversi risultati. Combattere per la gioia di vincere, cercare la robustezza del proprio fisico, coltivare la forza senza perdere nulla in scienza e in intelligenza, migliorare l’uomo rispetto alla vita sociale: ecco i fini che deve avere uno sport che vuole rendersi utile nella vita di una razza e di una nazione. Ed ecco ciò che si propone il Judo, il quale non ha solo lo scopo di educare il corpo, ma vuole anche plasmare moralmente e intellettualmente l’individuo per formare un ottimo cittadino[…]. Per questo il Judo in Giappone non viene considerato un’arte, ma come una cultura, che oltre ad offrire un’utilità immediata con la difesa personale per la vita, rinvigorisce i sentimenti migliori dello sportivo e dell’uomo.

Poco dopo la manifestazione a Trastevere, si svolsero alla SCMEF i primi esami per l’attribuzione della qualifica di Maestro. Quindi, nel maggio 1929, si disputò il campionato laziale. In giugno, sempre a Roma, si svolse il quarto campionato italiano. Ma il trasferimento di Oletti a La Spezia nel 1930 raffreddò non poco gli entusiasmi, nonostante le manifestazioni caparbiamente organizzate dalla “Colombo”. Nel febbraio 1931, per di più, la FILG venne sciolta. La sua attività fu inquadrata nella Federazione Atletica Italiana (fondata nel 1902 dal marchese Luigi Monticelli Obizzi), provocando l’inesorabile declino del jujutsu.
Mi pare a questo punto interessante esaminare qualche curiosità emersa dalla lettura dei primi regolamenti federali.
Secondo il regolamento della Federazione Jiu-Jitsuista Italiana (1924) i praticanti si dividevano in Maestri (cintura nera), Esperti (blu) e Lottatori (bianca), distinti in professionisti e dilettanti. Si diveniva Maestro o Esperto, abilitati all’insegnamento e all’arbitraggio, superando gli esami annuali banditi dalla FJJI. Cinque erano le categorie di peso: piuma (fino a 60 Kg), leggeri (fino a 70), medi (fino a 80), medio-massimi (fino a 90) e massimi (oltre 90). Gli incontri dovevano disputarsi tra atleti aventi la stessa qualifica e peso. Solo i professionisti potevano mettere in palio il titolo in combattimenti al di fuori delle gare organizzate annualmente dalla Federazione. Gli incontri, sia tra dilettanti che tra professionisti, si disputavano in tre riprese con intervalli di due minuti, di durata complessiva non superiore a trenta minuti. Risultava vincitore chi si aggiudicava almeno due riprese, Tuttavia, l’arbitro poteva sospendere il combattimento per resa o manifesta inferiorità tecnica di uno dei contendenti.
La materassina, “imbottita di lana, crino e segatura”, misurava non meno di 4 metri per lato (con spazio libero circostante di almeno un metro) e appoggiava su pavimenti di legno. Gli atleti indossavano la casacca bianca e i calzoncini. Erano facoltative le calze e le ginocchiere elastiche, vietate le scarpe. Per effettuare il saluto, obbligatorio “all’inizio del primo assalto e al termine dell’ultimo”, gli avversari si disponevano agli angoli opposti della materassina, appoggiavano sul tappeto le mani e il ginocchio destro, quindi eseguivano un inchino con la testa; in caso di sfida, lo sfidante batteva la mano destra sul tappeto.
Proiezioni e immobilizzazioni erano valide solo se effettuate all’interno della materassina. Il regolamento vietava le prese alle dita di mani e piedi, nonché i colpi con qualsiasi parte del corpo, ma consentiva strangolamenti “con gli avambracci, con le gambe e con i baveri”, oltre a compressioni con le gambe “ai fianchi, all’addome ed allo stomaco”.
Le sanzioni disciplinari consistevano in: ammonizione, sospensione fino a due mesi, sospensione fino a sei mesi, espulsione.
Secondo le norme dello statuto-regolamento approvato nel 1927, i praticanti furono divisi in Maestri Arbitri (cintura nera), Esperti Arbitri (blu), Lottatori Professionisti (rossa) e Lottatori Dilettanti (bianca). Le categorie di peso divennero sei: minimi, piuma, leggeri, medi, medio-massimi e massimi. Il combattimento poteva essere “semplice” o “vero”. Il primo consisteva “nell’atterrare con un colpo o controcolpo il proprio contendente facendogli toccare anche una spalla sul tappeto. Oppure tenerlo immobilizzato con una o tutte e due le spalle allo stesso per 30 minuti secondi”. Il combattimento “vero”, in più, consentiva strangolamenti e leve “da qualsiasi posizione”. La durata dei combattimenti, sempre in tre riprese con intervalli di due minuti, fu ridotta a 15 minuti per i dilettanti e 21 per i professionisti.
L’ultimo articolo del regolamento stabiliva che ogni incontro fosse improntato “al più alto senso cavalleresco”. Più che una dimostrazione di forza, doveva essere lo sfoggio dell’intelligenza e della tecnica acquisita nel metodo”.
Lo statuto-regolamento della FAI approvato dal CONI nel gennaio 1933, per la lotta-giapponese, prevedeva le stesse norme del 1927. Va tuttavia rilevato un cambiamento importante: il termine “Jiu-Jitsu Judo” era stato sostituito dal semplice “Judo”.
Jigoro Kano morì sul piroscafo Hikawa-Maru nel maggio 1938, mentre tornava in patria dopo aver presenziato al Congresso del CIO svoltosi al Cairo. Non assistette quindi alla disfatta del suo paese. Un paio di anni prima, quasi presagisse la tempesta, aveva lasciato una specie di testamento spirituale ai judokas di tutto il mondo:

Il Judo non è soltanto uno sport. Io lo considero un principio di vita, un’arte e una scienza […] Dovrebbe essere libero da qualsiasi influenza esteriore, politica, nazionalista, razziale, economica, od organizzata per altri interessi. Tutto ciò che lo riguarda non dovrebbe tendere che a un solo scopo: il bene dell’umanità.

Dopo un lunghissimo silenzio, il 14 giugno 1942 ebbe inizio alla scuola di polizia di Caserta il Primo Corso allenatori di lotta giapponese. Era diretto dal Prof. Francesco Cao, che aveva abitato a lungo in Giappone, ottenendovi la cintura nera. I 19 atleti selezionati agli esami del 30 luglio presero parte al corso di perfezionamento. Questo fu inaugurato il 3 settembre alla scuola di polizia di Roma. Gli appunti di Cao, pubblicati nel 1943 dal Ministero dell’Interno, non parlavano più di jujutsu. Parlavano di judo. E indubbiamente nell’opuscolo si riscontrava una chiara conoscenza dello “stile Kodokan”, persino nell’uso dei termini giapponesi appropriati. Cao descrisse con minuzia il “saluto”, le “posizioni”, gli “spostamenti”, gli “squilibri”, le “cadute”, suddividendo le tecniche secondo lo schema ancora oggi adottato. Il “vero” judo faceva quindi capolino in Italia proprio nel momento più tragico della nostra storia recente.
Giovanni Valente, insediatosi alla presidenza federale nel luglio 1941, organizzò inoltre il Trofeo di Giudò,. Questo si concluse a Venezia il 5 luglio 1943 con la vittoria di Enzo Fantoni su Marino Cipolat (ambedue agenti di P.S. del Centro di Milano). Il 3 ottobre 1943 doveva disputarsi a Roma il campionato assoluto (l’ultimo risaliva al 1929), ma le drammatiche vicende succedute al 25 luglio arrestarono il cammino del judo italiano.
Con il decreto 2 agosto 1943, il Partito Fascista veniva soppresso e il CONI posto alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Pochi giorni dopo il Maresciallo Badoglio nominò Commissario del CONI il Conte Alberto Bonacossa. Il 12 agosto, Bonacossa assunse anche la presidenza di tutte le Federazioni Sportive.
Poi venne l’8 settembre. Quindi l’occupazione tedesca, la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, la Resistenza e, finalmente, la Liberazione. Per la lotta giapponese, tuttavia i giorni erano sempre bui.

Solo nel 1947 si ebbe una ripresa dell’attività con la nomina di una Commissione tecnica presieduta da Alfonso Castelli, Segretario Generale della Federazione Italiana Atletica Pesante (FAI fino al 1933). La commissione incontrò molti ostacoli per i contrasti sorti tra i suoi membri. Ciascuno “asseriva di essere il solo depositario del VERO metodo” (Castelli), anche se soltanto Alfredo Galloni fu poi irremovibile nella sua intransigenza, fondando una Federazione separata.
Il primo campionato nazionale del dopoguerra si disputò a Lanciano nei giorni 1 e 2 maggio 1948. A contendersi la vittoria nelle cinque categorie furono 29 atleti di 9 società. Cinque erano di Roma (CUS, Excelsior, Fronte della Gioventù, Poligrafico, Ymca), due di Lanciano, una di Bari e una di Varese. I titoli individuali andarono ad Adriano Battisti (piuma), ad Augusto Ceracchini (leggeri), a Carlo Mazzantini (medi), ad Amerigo Santarelli (medio-massimi) e a Vincenzo Fanelli (massimi). Nella classifica per società fu prima la S.G. Angiulli di Bari, diretta dal Maestro Franco Scioscia, davanti all’U.S. Excelsior e al CUS Roma, allenate da Romolo Stacconi e Arnaldo Santarelli. In occasione dei campionati si riunì la Commissione Tecnica, che prese atto delle dimissioni di Castelli, eleggendo Presidente Stacconi.
Durante il III Congresso della FIAP, tenuto a Genova il 16 e 17 ottobre 1948, Giorgio Giubilo fu confermato Presidente e Castelli Segretario Generale. Il Congresso approvò il nuovo statuto federale, che contemplava tra gli organi centrali il Gruppo Autonomo Lotta Giapponese (trasformato in Gruppo Autonomo del Judo nel 1951).
Sciolta la Commissione Tecnica il 29 ottobre, l’Assemblea del GALG svoltasi a Roma il 14 novembre elesse Presidente Aldo Torti, Segretario Arnaldo Santarelli e Consiglieri Tommaso Betti Berutto e Alfredo Cardarelli. Rintracciato dall’ex allievo Betti Berutto ad Angera, sul Lago Maggiore, il 18 gennaio 1949, Carlo Oletti accettò la presidenza onoraria. “Con la sua autorità rese possibile la riunificazione generale di tutte le forza judoistiche italiane” (Castelli). Nel congresso del GALG tenuto il 29 marzo, infatti, il numero dei Consiglieri fu portato a quattro con l’inclusione di Roberto Piconi e del “pentito” Galloni.
Per la stesura del testo definitivo del regolamento tecnico fu nominata una commissione presieduta da Oletti e composta da Galloni, Piconi, Porceddu, Ramella, Scioscia e Stacconi. Il regolamento, pubblicato su “Lotta e Pesi” il 1° marzo 1949, tra l’altro divideva i praticanti in tre categorie: allievi (cintura bianca), lottatori di III, II e I serie (cintura verde, rossa o marrone), Maestri (cintura nera). Il 1° dan venne riconosciuto a 7 Maestri, il 2° dan a 11, il 3° dan a 9, e precisamente Giulio Bovi, Francesco Cao, Mario Cuzzocrea, Oronzo Donno, Alfredo Galloni, Ennio Marchionni, Lucio Migiarra, Michele Savarino e Franco Scioscia.
In occasione delle Olimpiadi del 1948, per iniziativa del Budokwai di Londra, fu convocata una conferenza internazionale presso il New Imperial College a South Kensington. Si decise la costituzione dell’European Judo Union (EJU), di cui fu eletto presidente l’inglese Trevor P. Legget, l’unico non giapponese graduato 5° dan. Il 29 ottobre 1949, si riunì a Bloomendaal, in Olanda, il II Congresso dell’EJU, che approvò lo statuto e il regolamento tecnico, ripreso da quello del Kodokan. Aldo Torti fu eletto Presidente, Castelli Segretario, Galloni Tesoriere. La sede venne trasferita a Roma.

“Era la prima Federazione Internazionale – anche se modesta – presieduta da un italiano e con sede in Italia, dopo la guerra” (Castelli)

Davvero una grande soddisfazione dopo tanti momenti bui.
Il 29 ottobre 1950, si svolse a Venezia il III Congresso dell’EJU, che confermò Torti Presidente e Castelli Segretario. Il IV Congresso si tenne a Londra il 2 luglio 1951.
Ispirato dalla Francia, il Kodokan di Tokyo inviò un messaggio nel quale proponeva di trasformare l’EJU in una Federazione Internazionale sotto la presidenza di Risei Kano, figlio di Jigoro, e con sede nella capitale nipponica. Sulla trasformazione

“l’Italia era d’accordo ed aveva anzi preparato uno statuto che venne approvato con poche modifiche. Ma non era d’accordo nel consegnarsi mani e piedi legati ai giapponesi, perché riteneva che ciò costituisse un ostacolo alla realizzazione del massimo programma che era quello di far ammettere il judo alle Olimpiadi. La maggiore accusa che il CIO faceva al judo, infatti era quella di essere uno sport nazionale giapponese e non uno sport universale. Consegnandosi ai giapponesi si sarebbe rafforzata questa opinione. Gli italiani si opposero con tutte le loro energie e, per quella volta, riuscirono a spuntarla” (Castelli).

La neonata International Judo Federation (IJF) elesse Torti Presidente e Castelli Segretario, ma nel settembre 1952, al Congresso di Zurigo, la presidenza passò a Kano e la sede si trasferì a Tokyo. Torti fu però posto a capo della ricostituita EJU.

Già alla fine del 1951, tuttavia, Castelli si era dimesso da Segretario dell’IJF. Tra l’altro contestava ai francesi di offrire la Presidenza della Federazione ai nipponici prima ancora della loro adesione al nuovo organismo:

“Come se ad un ospite, che non è ancora entrato in casa nostra, ci recassimo sulle scale ad offrirgli una tazza di caffè!”. Il casus belli consisteva nelle categorie di peso. L’Italia ne era la principale sostenitrice, mentre la Francia si dichiarava nettamente contraria, rifacendosi alla concezione orientale. I nostri rappresentanti sapevano, e i fatti lo hanno ampiamente dimostrato, che “la romantica storiella dell’uomo piccolo e debole che può battere il colosso è vera solo quando l’uomo piccolo e debole conosce benissimo il judo e il colosso non lo conosce affatto. Ma nel campo agonistico, quando entrambi gli atleti sono tecnicamente preparati, il colosso non ha nessuna difficoltà a sbatacchiare per aria l’uomo piccolo, anche se questi non è affatto debole. In queste condizioni, ostinarsi a dare l’ostracismo alle categorie di peso significava chiudere gli occhi alla realtà” (Castelli).

Nel settembre 1951, la Nazionale di Judo esordì a Salisburgo nella Mitropa Cup. La nostra squadra, composta da Cesare Canzi, Augusto Ceracchini, Mario Sarocco, Elio e Virgilio Volpi, fu sconfitta 8-2 dall’Austria e 7-3 dalla Germania. Il 5 e 6 dicembre 1951, al Palais des Sport di Parigi, si disputò la prima edizione dei Campionati Europei di Judo (senza categorie di peso, introdotte però l’anno successivo). Il romano Elio Volpi conquistò la medaglia di bronzo tra le cinture marroni, dietro il francese Duprè e l’olandese Geesink. Ancora medaglie di bronzo con Volpi (2) e Gaddi nel 1952 a Parigi, e con Maurizio Cataldi e Nicola Tempesta nel 1954 a Bruxelles. Nell’ottobre 1953, vincemmo la prima medaglia a squadre ai Campionati Europei. A Londra, fummo terzi dietro l’Olanda e la Francia. Al contemporaneo Congresso dell’EJU Maurizio Genolini fu nominato per acclamazione Segretario Generale.
Il 5 ottobre 1952, si costituì il Collegio delle Cinture Nere di judo. Presidente onorario era Oletti, Presidente effettivo Arnaldo Santarelli, Segretario Tommaso Betti Berutto.
L’1-2 novembre 1952, si svolse a Trento il IV Congresso Federale. Il Vice-Presidente Valente superò il Presidente in carica Giubilo per 134 voti contro 132.

Come già ricordato, a Valente si doveva la ripresa del judo tra il 1941 e il 1943. Quindi la sua elezione fece nascere giustificate speranze. Qualche mese dopo, un altro avvenimento galvanizzò i judokas italiani. Su invito del Kodokan Club di Roma, nel 1953, venne nel nostro paese il Maestro Noritomo Ken Otani, allora 5° dan (seguito nel 1956 da Tadashi Koike), che contribuì in maniera decisiva allo sviluppo del judo in Italia.
Le speranze, tuttavia, andarono presto deluse. Dal 31 ottobre al 1° novembre 1953, si svolse a Rimini il VII Congresso Federale. Questo congresso soppresse il Gruppo Autonomo Judo, inquadrando il judo tra le discipline della FIAP, “a parità di doveri, ma non ancora di diritti” (Castelli). Dopo lo scioglimento del GAJ, alla guida del judo si susseguirono diversi commissari. Nel 1956, tutti i poteri tecnici si concentrarono nelle mani di Genolini. In quell’anno si disputò a Tokyo il Primo Campionato Mondiale di Judo, in categoria unica, vinto dal nipponico Natsui. L’Italia, assente alla prima e alla seconda edizione (Tokyo 1958), prese parte alla terza edizione del mondiale (Parigi 1961), l’ultima in categoria unica. Ottenemmo un 5° posto con Remo Venturelli.

Ken Noritomo Otani
Ken Noritomo Otani (1920-2017), 9° dan del Kodokan di Tokyo. È stato il primo giapponese ad insegnare il judo in Italia influenzando per almeno tre decenni lo sviluppo del Judo italiano.
Nicola Tempesta
Nicola Tempesta (1935-2021), 9° dan, prima medaglia d'oro italiana ai Campionati Europei

Ai Campionati Europei, svoltisi a Rotterdam nel novembre 1957, Nicola Tempesta regalò all’Italia la prima medaglia d’oro nella disciplina. La seconda la ottenne quattro anni dopo, agli Europei disputati al Palazzo Lido Sport di Milano dall’11 al 13 maggio 1961.
Tempesta vinse nella categoria “quarti dan”. Fiocchi fu terzo nei leggeri e l’Italia terza nella gara a squadre. Agli Europei il campione napoletano ha vinto complessivamente 2 medaglie d’oro, 6 d’argento e 5 di bronzo, di cui quattro nel torneo a squadre.
Nel 1962 ai campionati giapponesi di judo, furono introdotte per la prima volta le categorie di peso: leggeri, medi e massimi. E agli Europei del 1963, abolite le gare per dan, si tenne conto soltanto delle categorie di peso. Dopo tante polemiche, si riconosceva così implicitamente la validità delle proposte avanzate dall’Italia in seno all’EJU e all’IJF.

L'impatto delle Olimpiadi

Le Olimpiadi del 1964 si disputarono a Tokyo e, per la prima volta, nel programma figurava il judo con 3 categorie di peso e l’open (senza distinzione di peso). Va sottolineato che nella patria del judo l’olandese Anton Geesink vinse l’oro nell’open battendo Akio Kaminaga per immobilizzazione a terra. Un silenzio di ghiaccio scese sulla Nippon Budokan Hall stipata da 15.000 spettatori.
La sconfitta non doveva comunque risultare del tutto inaspettata. L’olandese fu il primo judoka europeo a infrangere il mito della supremazia giapponese vincendo nel 1961 il Campionato del mondo di Parigi. Battuti Kaminaga e Koga, detronizzò in finale Sone, campione in carica dal 1958.

Geesink concluse la sua straordinaria carriera sportiva dopo aver vinto il secondo titolo mondiale a Rio de Janeiro nel 1965, e il 23° titolo europeo a Roma nel 1967.
Il 23 ottobre 1966, nella palestra del Kodokan Milano, si svolse il primo campionato nazionale femminile, in 5 categorie. E in dicembre debuttò la Nazionale Femminile, battendo la Cecoslovacchia a Kromeritz. Nessuno, allora, avrebbe potuto immaginare i successi ottenuti dalle ragazze del judo dal 1975 (primo campionato europeo femminile, a Monaco) a oggi.
Dimessosi Valente, il 5 gennaio 1965 la Giunta Esecutiva del CONI nominò Carlo Zanelli Commissario straordinario della FIAP. Con il nuovo statuto, approvato dal CONI il 16 settembre 1965, si stabilì che il Consiglio Federale fosse composto, in parti uguali, da membri eletti dai tre Settori (Lotta, Pesi e Judo) con votazioni separate. Zanelli fu eletto Presidente il 25 febbraio 1967 e resse la carica fino al 29 marzo 1981, quando gli successe il Dott. Matteo Pellicone. Dopo la divisione della FIAP in tre Settori, i Vice-Presidenti del Settore Judo sono stati: Alessandro Chieco Bianchi (1967-69), Augusto Ceracchini (1969-78, anno in cui è immaturamente deceduto), Maurizio Genolini (1978-81), Giancarlo Zannier (1981-84) ed Ezio Evangelisti (dal 18 gennaio 1985).

Anton Geesink
Anton Geesink (1934-2010)

Il Congresso dell’EJU svoltosi a Lussemburgo il 6 maggio 1966 assegnò la 16a edizione dei Campionati Europei a Milano, che già li aveva organizzati nel 1961. Viste le difficoltà a reperire un’idonea sede nel capoluogo lombardo, la manifestazione venne dirottata a Roma e si svolse dall’11 al 13 maggio 1967 al Palazzetto dello Sport. Vi parteciparono 154 atleti di 22 nazioni. L’organizzazione fu esemplare, grazie all’opera dell’apposito Comitato presieduto da Ceracchini, ma gli azzurri non vinsero medaglie.

Alla vigilia delle gare, atleti e accompagnatori erano stati ricevuti dal Papa e in Campidoglio.
Il 20 aprile 1970, alla presenza del Presidente del CONI, s’inaugurò all’Acqua Acetosa di Roma il I Corso Nazionale per Insegnanti Tecnici di Judo, intitolato a Jigoro Kano. Il Corso, diviso in cinque turni di una settimana ciascuno, vide la partecipazione complessiva di 340 tecnici e si concluse il 3 novembre 1970. Durante la cerimonia, Zanelli conferì a Onesti la cintura nera ad honorem e a Ceracchini il 6° dan. Con motu proprio del Presidente, nel 1977 Ceracchini fu promosso 7° dan, il massimo grado mai assegnato in Italia fino ad allora.

L'Accademia Nazionale Italiana di Judo

Nel 1971, l’Avv. Augusto Ceracchini, Vice-Presidente Federale, con l’appoggio del Presidente Zanelli e la collaborazione di Genolini (scomparso nel marzo 1995), varò l’Accademia Nazionale Italiana di Judo. La sede venne fissata nella foresteria del Velodromo Olimpico all’EUR. I primi 14 allievi (corso Alfa) iniziarono le lezioni il 12 settembre 1971. Il 23 novembre, furono ricevuti in udienza da Papa Paolo VI, che si rivolse loro con cordiali parole di stima:

Abbiamo letto il regolamento e i programmi: ne abbiamo ricavato l’impressione di una serietà, di una, quasi diremmo, ascetica norma di vita e di studio, per raggiungere la completezza umana, scientifica e agonistica, necessaria per svolgere domani, in modo adeguato la vostra attività .

Nel marzo 1974, l’Unione Europea di Judo riconobbe l’Accademia quale sua istituzione ufficiale.
Sempre nel 1974, l’Assemblea Federale straordinaria mutava il nome della FIAP in Federazione Italiana Lotta Pesi e Judo. Dal marzo 1981, la FILPJ è presieduta dal Dott. Matteo Pellicone. Consigliere dal febbraio 1961, era stato Vice-Presidente del Settore Lotta dal 1967 al 1969 e dal 1973 al 1981.
Ma il judo non è solo agonismo. Come sosteneva Jigoro Kano, è kata (forma), ovvero la grammatica, e randori (esercizio libero), ovvero la sintassi. È bene, a mio parere, non dimenticare mai che il judo è molto di più di uno sport. A questo proposito vanno ricordate le parole di Gunji Koizumi:

Lo scopo ultimo del Judo è l’unione armonica degli opposti nella realtà della Vita.
In altre parole, il Judo realizza l’unione dell’Uomo e della Natura .

Nella seduta del 21 giugno 1985, il Consiglio Federale accolse anche il jujutsu e l’aikido tra le discipline controllate dalla FILPJ, in quanto complementari del judo. Queste erano “finalizzate alla difesa personale e all’arricchimento tecnico e culturale”.

Il judo moderno

Due date importanti: il 25 aprile 1990, inaugurazione del Palazzetto FILPJ, e 18 dicembre 1992, inaugurazione del Centro di Preparazione Olimpica.
Un complesso magnifico, quello di Ostia, destinato a lasciare una traccia indelebile non solo nella storia della Federazione, ma anche nella storia urbanistica della capitale.
Nel 1992, il Settore Judo contava 1.187 società con 64.271 tesserati (di cui 1.230 nel jujutsu e 1.665 nell’aikido), 2.364 insegnanti e 658 ufficiali di gara.
Nel 1995, il karate, già disciplina associata, entra a far parte della FILPJ, che assume pertanto, la denominazione di FILPJK (Federazione Italiana Lotta Pesi Judo Karate).
Il 1° luglio 2000 l’Assemblea Nazionale delibera di dividere la FILPJK in Federazione Italiana Judo Lotta Karate Arti Marziali (FIJLKAM) e Federazione Italiana Pesistica e Cultura Fisica (FIPCF).
Nel 2002 la FIJLKAM celebra il centenario della sua fondazione.
Il 27 novembre 2012 s’inaugura al Centro Olimpico il Museo degli Sport di Combattimento e la nuova Palazzina Direzionale Multifunzionale.

Conclusione

Il judo ha percorso una lunga strada dalle sue umili origini nei templi e nelle scuole giapponesi fino a diventare una disciplina praticata e rispettata in tutto il mondo. L’influenza di figure storiche come Bodhidharma e Jigoro Kano ha trasformato il judo in un’arte che va oltre il semplice combattimento, promuovendo principi di rispetto, disciplina e crescita personale. L’Italia ha giocato un ruolo significativo nella diffusione del judo, con pionieri e campioni che hanno contribuito a far conoscere e amare questa disciplina.

Oggi, il judo continua a evolversi, integrando nuove tecniche e filosofie, rimanendo fedele ai suoi valori fondamentali. Che si tratti di competizioni internazionali, di formazione accademica o di semplici allenamenti quotidiani, il judo rimane un faro di integrazione tra il corpo e la mente, un simbolo di armonia e forza interiore.

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